giovedì 13 settembre 2012

La voce delle case


Ho sempre avuto un interesse particolare per le case. Da bambina mi bastava entrare in un appartamento per essere avvolta da un’infinità di sensazioni: immediatamente percepivo tristezza, angoscia, paura, luce, allegria, fantasia. Le pareti mi parlavano come se schiudessero per me un linguaggio d’aria.
Sono rimasta così. La passione per le tane degli esseri umani mi accompagna ancora e forse è l’unica ragione per cui svolgo da tanti anni lo sventurato lavoro di Rilevatrice Statistica. Amo incontrare le persone nel loro ambiente e ascoltarne le storie, anche se è la casa a parlarmi. Appena la porta si apre, la casa mi riceve come se mi aspettasse da sempre e mi riversa addosso tutte le sue emozioni. Non ha freni inibitori, non ha sovrastrutture: come i bambini. E così io l’ascolto, anche se per cortesia nei confronti degli abitanti non le presto palesemente attenzione e non alzo lo sguardo dal questionario. Ma è per lo più inutile: sento sempre le sue grida, i suoi sussurri, i suoi risolini sfacciati e i suoi pianti di dolore.


Cosenza Vecchia, 2010
Impiego molto tempo a verbalizzare le mie sensazioni e a volte non ci riesco affatto. Mi sono anche accorta che i conoscenti – ma non gli amici intimi – fanno sempre un po’ fatica a conciliare la mia personalità creativa con un lavoro tanto ripetitivo come quello del Rilevatore Statistico. Ma è mancanza di Immaginazione, perchè la realtà è che i miei incontri con le case sono sempre così vividi, estremi, umani… che risulterebbero eccessivi per qualunque opera di fantasia.
Mi torna spesso in mente quel romanzo di José Saramago, Tutti i nomi. E’ ancora uno dei miei preferiti. E’ una storia dal sapore autunnale e dai toni caldi, che non ha tra i suoi registri emotivi né la morsa dell’inverno né l’alito bruciante dell’estate. C’è un piccolo personaggio dall’aspetto cinerino, un ometto dall’aria insignificante che nel segreto del suo cuore vive la più incredibile delle vite parallele: osserva gli altri, colleziona impressioni. I passi di qualcuno in cerca di qualcuno, scrive José Saramago. Me lo ricordo molto bene.


Ma quando ero bambina non avevo una ragione “ufficiale” per entrare nelle case degli altri e non ero nemmeno preparata, dunque quando capitava che mi portassero a casa di qualcuno, era sempre la casa a investirmi per prima delle sue lamentele o della sua gioia incontenibile. E io non facevo altro che restare in silenzio ad assorbire tutto... come una spugna.


Cosenza Vecchia, 2010
Quando avevo dodici anni mia mamma mi portò a giocare da una bambina che non conoscevo. Era un avvenimento piuttosto insolito: non mi era mai capitato che fossero altri a suggerirmi gli amici e di solito ero perfettamente in grado attaccare bottone da sola. Dunque oggi penso che ci fosse un particolare motivo dietro il gesto di mia madre, anzi più probabilmente assecondò la richiesta di una conoscente e suggellò un classico Accordo tra Adulti. Ad ogni modo venni portata a casa di questa bambina e posizionata in un salotto con un tappeto verde. “Abbandonata” sarebbe però la parola esatta, perché appena entrai mi ritrovai sola e in balìa delle grida angoscianti delle pareti, che mi avevano riconosciuto immediatamente.


Era un bell’appartamento. Gli ambienti erano spaziosi e la luce entrava generosa da grandi portefinestre incorniciate di legno chiaro. I muri erano limpidi, eppure cominciarono a lanciare lamenti che divennero via via sempre più acuti. Ad un certo punto mi rimbombarono nella testa e si fecero insopportabili, grida che finirono col lacerare il velo cristallino del pomeriggio lasciandomi sgomenta. Urlavano disperazione e assenza, un’assenza che prese di colpo la forma di mia madre, scomparsa dietro la porta chiusa da nemmeno mezzora.
Venni colta dal panico. Sapevo di essere a poche centinaia di metri da casa mia, ma una proibizione infantile mi rendeva schiava dell’attesa. Ero in trappola: non sapevo fuggire. C’era una bambina accanto a me e una montagna di giocattoli giaceva su un tappeto verde, ma nessuna delle due cose mi interessava. Ero agghiacciata da quelle pareti bianche e da quelle finestre luminose che mi gettavano inspiegabilmente nella disperazione.
Iniziai a piangere. La bambina continuava a giocare sul tappeto, seria. Accorse nella stanza una signora bionda, che iniziò a consolarmi. Mi preparò un the caldo e mi offrì dei biscotti tristi su un piattino con un orlo in oro e piccoli fiori cremisi. La mia tristezza precipitò sempre più in basso. Non volevo toccare i biscotti, non volevo il the. Volevo tornare a casa.
A posteriori penso che sia stato un momento molto difficile per quella mamma nervosa, forse già provata da un’inquietudine che le sue pareti riflettevano insolenti nonostante i suoi sforzi. Non riuscendo a tirar fuori dalla mia bocca altro che singhiozzi, la povera donna telefonò a mia madre, che tornò a prendermi di corsa. Comparve sulla soglia, il viso pallido incorniciato da quel legno insolente. Ma ormai ero chiusa a riccio, terrorizzata io stessa da quello che stava accadendo.
Ricordo poco dei minuti che seguirono e del tragitto verso casa. Era la prima volta che facevo una cosa del genere: ero una bambina che non piangeva quasi mai e invece probabilmente continuai a piangere senza dare spiegazioni, sfogando un terrore primigenio che ritrovai vent’anni dopo meravigliosamente descritto nelle pagine di V.S. Naipaul: I am like that child outside a hut at dusk, to whom the world is so big and unknown and time so limitless
Verosimilmente, quando giunsi a casa mi tuffai in uno dei miei tanti libri di storie o mi infilai i pattini a rotelle come se niente fosse accaduto. Tuttavia quell’evento rimase impresso nella mia memoria e in quella delle due mamme, che sicuramente comprendevano qualcosa che io avevo potuto soltanto percepire e subire.

Ma quella bambina?

Foto di Marsel Von Oosten, Namibia. National Geographic, 2011.

Alcuni anni più tardi, in un pomeriggio scuro di inizio inverno, mia madre entrò in cucina. Stavo facendo i compiti di latino. Alzai gli occhi e la vidi, di nuovo incorniciata da una porta di legno. Aveva il volto tirato, pallido e severo, un'espressione dura che le affiora sotto le guance paffute quando è sconvolta oppure furente. Mi chiese se mi ricordavo di quell’esperienza e della bambina. 
“Certo”, risposi interessata. “Perché? ...è successo qualcosa?”
“La ragazza ha cercato di uccidersi”.

Non ci fu bisogno di parlare. In quell’istante capii cosa stava pensando mia madre e cosa mi avevano voluto dire quelle mura. Rimise insieme i dettagli dell’angoscia familiare e le ragioni del gesto, ma per me si trattava – appunto – di dettagli. Non c’era bisogno di trovare una logica. Io avevo sentito le grida, avevo colto l’essenziale. Perchè le case non hanno voce, ma parlano. Come i bambini.



© Silvia Belcastro




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